domenica 10 novembre 2013

Persona Altamente Qualificata Timpano

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1

Ottobre

«Pronto»
«Sì, ecco. Prima non la sentivo.»
«Non avevo ancora risposto»
«Come dice?»
«Non avevo ancora risposto...»
«Infatti... mi sembrava.»
«Come-»
«È la E.T.A.
«Sì, signora.»
«Quindi lei può aiutarmi?»
«Sono qui per questo...»
«Lei è... qualificato?»
«Qualificato?»
«Per aiutarmi, intendo.»
«...»
«Pronto?»
«Sì. Sono qualificato.»
«Be'?»
«Qual è il suo nome?»
«Vera. Vera Rossini, ma può chiamarmi Vera.»
«Bene signora Rossini, mi parli pure del suo problema.»
«Il mio è un problema di tipo famigliare. Più precisamente ha a che fare con mia figlia Flora. Lei deve sposarsi il mese prossimo e io non sono d'accordo. Flora è una brava ragazza... è anche bella, una volta ha vinto un concorso di bellezza, sa?... Pronto?»
«Sì, signora. Ci sono.»
«E c'è questo ragazzo, questo balordo, si chiama Pier. E... non lo so cosa fa per campare. Non è una brava persona, mi stia a sentire. Lo so per certo. E Pier sembra proprio intenzionato a sposarsela la mia bambina. Se la vedesse... se vedesse com'è bella... a darla in mano a quel delinquente mi vengono i brividi.»
«Capisco.»
«Può fare i tarocchi? Leggermi le carte? Può farmi sapere com'è che andranno le cose?»
«...»
«Pronto? È caduta la linea?»
«No signora, sono qui. Può aspettare un momento in linea?»
«Certo.»
«...»
«...»
«Signora Rossini?»
«Sì?»
«Ho bisogno della data di nascita di sua figlia, della data di nascita di...»
«Pier?»
«...di Pier e... della sua data di nascita.»
«La mia? E a che serve?»
«Serve per i... serve per leggere cosa succederà, signora.»
«Oh, allora ben volentieri. Sa, lei è proprio una brava persona, si sente dalla voce. La prego salvi mia figlia...»
«...»
«Pronto?»

2

Aprile

Ha chiamato anche oggi. Non ci potevo credere, quando ho alzato il ricevitore e ho sentito quella voce polverosa, vecchia. Piena di solitudine. Avrei voluto urlarle contro di riagganciare, non so bene perché ma l'avrei fatto se fossi stato ancora quello di una volta.
Emile e Ferro la chiamano «la vecchia dei topi», io, per contratto, devo chiamarla signora Gualnieri. Sono due mesi che chiama e non so nemmeno il suo nome di battesimo. So che è anziana, molto anziana, visto che la sua data di nascita sembra lontana in modo ridicolo. So che ha due figli che ormai sono vecchi anche loro. So che suo marito è morto all'inizio dell'anno. So che va pazza per la marmellata di visciole, quella ben passata perché i pezzettoni di frutta le danno il voltastomaco e poi ha problemi con i denti, quei pochi che le sono rimasti: dice che ogni volta che mangia dello zucchero è come masticare vetri rotti. So che ha un problema di rinite, e che senza le sue medicine per il naso tappato morirebbe asfissiata o almeno così crede. So che non va dal parrucchiere da almeno mezzo decennio. Ché prima ce la portava sua figlia: prima che diventasse troppo in là con l'età anche lei e non avesse bisogno a sua volta della figlia per spostarsi. So che ha paura di prendere l'auto e che quella di suo marito non si muove da quasi quattro mesi e ormai ha le ruote quadrate. E poi so che ha un enorme problema con i topi, o almeno è quello che crede lei.
Dice che casa sua ne è piena. Dice che quando lei va a dormire i topi le fanno i dispetti e le spostano i soprammobili, le cose che ha in casa, le fanno cadere le fotografie e le buttano i giornali vecchi. Dice che sono i vicini che glieli hanno scatenati contro, perché non la sopportano e vorrebbero vederla morta ma lei li seppellirà tutti.
Questa vecchina, questa signora Gualnieri, chiama tutti i giorni e mi tiene al telefono dalle undici alle undici e quarantacinque. Cioè per tutti i quarantacinque minuti che può durare il nostro servizio. Potrebbe richiamare e avere altri quarantacinque minuti ma non lo fa mai. Ed è incredibile la precisione matematica con cui sembra salutarmi e attaccare sempre allo scoccare dell'ultimo secondo.
Non ho idea di come faccia a pagare la bolletta astronomica che dovrà arrivarle per forza ogni mese.
Per me è una pacchia: sono poche le persone disposte a restare al telefono per la durata massima del servizio e solitamente convincerle a rimanere attaccate all'apparecchio è una fatica boia.
La signora Gualnieri, invece, chiama e parla senza fermarsi mai. A me tocca solo inframezzare con qualche: «e certo», oppure «mi sembra giusto». Ogni tanto, una volta a settimana, mi chiede di farle le carte e io, come al solito le invento lì sul momento. Lei è contenta e poi ricomincia a parlare. Con lei posso perfino osare di inventare una predizione favorevole, tanto so per certo che richiamerà.
La verità è che mi fa pena. Pensavo di averlo superato questo scoglio della pietà umana, invece è ancora lì, aggrappato con le unghie come un groppo in gola che non riesco a scacciare.
La signora Gualnieri è il mio groppo in gola.
Non è come se mi facessi scrupoli con lei: lo so che questo è il mio lavoro e che nessuno la obbliga a chiamare ma mi sento come se rubassi dal portafoglio di mamma. È una cosa che provavo con ognuno dei disperati che chiamavano, all'inizio, e che poi, per forza di cose, ho superato. Con lei non ci riesco.
Ferro ed Emile, i miei colleghi vicini di postazione sono invidiosi e vorrebbero avercela loro una signora Gualnieri personale, ma sono sicuro che non sanno cosa significhi.
Dall'una all'una e mezza abbiamo tutti e tre pausa pranzo. Questo significa che per mezz'ora siamo sollevati dall'obbligo delle cuffie e dell'auricolare e abbiamo qualche minuto per mangiare giù, alla pizzeria dietro l'angolo.
«Quindi dice che il tipo gliel'aveva detto dell'altra donna. Però lei pensava scherzasse. È assurdo, cazzo...» Emile morde la pizza con rabbia.
«Uh-uh» Ferro è più delicato. Meno rabbioso. I suoi occhi sono persi chissà dove tra i rametti di quel cespuglio che cerca di fiorire nella primavera incombente.
C'è questo parchetto in cui ci sistemiamo per mangiare. È piccolo, riservato. Un'oasi nel cemento degli incroci stradali, ma è la migliore oasi che possiamo permetterci. E poi è abbastanza verde da essere rilassante.
«Allora io le ho chiesto cos'aveva fatto, no? Quando ha scoperto quell'altra, dico...»
Emile è l'unica di noi che parla del lavoro anche quando non siamo in ufficio.
Né io, né Ferro apriamo mai bocca su quelli che ci chiamano. Tranne che sulla signora Gualnieri, ovviamente.
«E lei, Dio mio, lei mi dice che li ha trovati al letto insieme. Al letto insieme! Vi rendete conto. Cristo santo, ho mangiucchiato quasi tutta la matita mentre me lo raccontava.»
Io ho finito la pizza e sto cercando di pulire le dita. La lattina che tengo in mano presenta una serie di impronte digitali perfettamente riprodotte.
«Allora le dico, tesoro... sì, l'ho chiamata tesoro... tesoro, non avrai mica fatto qualche gesto folle? Ho pensato, tipo pugnalarli là, nel letto. L'ho pensato, giuro che non l'ho detto...»
Io non parlo mai della gente che mi chiama perché me ne vergogno. Non mi vergogno di me, ci mancherebbe, questi due fanno il mio stesso lavoro, mi vergogno di loro. Della loro ingenuità. È una sensazione strana. Tipo come se raccontassi un porno a tua madre. Voglio dire non sei tu che fai quelle cosacce sullo schermo, eppure è imbarazzante che lo facciano loro e tu stia lì a raccontarle.
«Lei mi dice che no, che ha solo urlato...»
Emile è magra ed è brutta. Sto facendo questo giochino di descrivere le persone in due parole. È divertente. L'ho letto in una rivista, dice che aiuta ad attribuire alla gente che conosci un ruolo nella tua vita. Ci ho messo un po' a trovare due parole che descrivessero perfettamente Emile. Pettegola, strega, spiona, idiota la descrivevano abbastanza bene. Ho deciso che «brutta» racchiude un po' tutto questo.
Ferro è silenzioso e grasso. A guardarlo così non diresti mai che fa il lavoro che fa. Cioè, davvero, questo tipo che biascica all'incirca una manciata di parole all'ora che intrattiene le persone al telefono? No, dai.
Per Ferro trovare le due parole è stato più difficile.
«E quindi, alla fine, mi chiede di farle le carte e di dirle se lui tornerà da lei. Avevo una gran voglia di mandarla a fanculo e di dirle che ci vuole un po' di dignità. Invece alla fine le ho fatto le carte. E sapete una cosa?»
«Che?» domando. Mi scolo il resto della coca.
«Gliele ho fatte e a quanto pare lui tornerà!»
Mi stropiccio gli occhi. Ferro si è alzato dalla panchina e si dirige verso il cestino dei rifiuti. Visto da dietro sembra un orso che cammina sui tacchi.
«Emile, tu non hai la minima idea di come si facciano i tarocchi. Li inventi sul momento come me, come lui», dico indicando il tizio che sta buttando il vassoio di carta talmente unto che è quasi diventato trasparente. «Sempre ammesso che esista un modo per farli.»
Lei sbuffa. «Ecco, appunto. Che differenza c'è tra me e una cartomante professionista?»
Io alzo le spalle e lancio senza cura il vassoio nel cestino. Quindi mi sgranchisco la schiena e controllo l'orologio. È l'una e ventidue. Tra otto minuti dovrò avere un auricolare fissato sull'orecchio.
«Si va» dico, incamminandomi verso il palazzo dove lavoriamo.
«Oh, aspettate, non ho finito!» Urla Emile, ingozzandosi di pizza.
Se solo parlasse di meno potrebbe mangiare tutto e anche più velocemente di noi. Invece no, parlare tutto il giorno al telefono non le basta, deve rompere le palle anche durante la pausa pranzo.
Io e Ferro siamo già a metà strada quando lei ci raggiunge tenendo un pezzo di pizza tra i denti. Sono sicuro che quei mugugni che sta facendo sono tentativi di parlare. Vorrei colpirla. Colpirla con uno schiaffo e dirle che è poco più che un parassita e che è una viscida e schifosa profittatrice.
Se dovessi descrivere me con due parole sarebbero parassita e viscido.

3

Gli orari dopo pranzo sono sempre piuttosto smorti.
Nessuno ha il coraggio di chiamarci a quest'ora. Solitamente a quest'ora a casa ci sono i figli o i mariti e giustificare una telefonata del tipo che presuppone una telefonata a noi non è mai facile. Meglio di mattina o, al limite, di sera quando tutti gli altri dormono.
Qui alla E.T.A. facciamo turni mensili per quanto riguarda il lavorare di giorno o di notte. Aprile è il mese in cui lavoro di giorno e questo lo rende un mese buono. Quando lavori di notte non è raro che ti capiti qualche maniaco. No, dico davvero. Quando trovano le linee erotiche intasate chiamano noi e sperano di aiuto. Ci dicono che il nostro nome è «Emergenza Telefono Amico» e che quella è proprio un'emergenza. La maggior parte puntano alle nostre centraliniste ma qualcuno non fa lo schizzinoso e, pure se gli capita un uomo, chiede di essere aiutato. A me è successo un paio di volte e ho messo giù. Sono sicuro che Bosni mi ammazzerebbe se lo sapesse. I segaioli, specialmente quelli che impiegano parecchio, costituiscono una buona parte del fatturato mensile. Emile è una fuoriclasse. I segaioli sono la sua categoria preferita.
Abbiamo suddiviso la gente che ci chiama in categorie. È stata un'idea di Bosni.
Grossomodo le categorie sono solo tre, però contengono una serie di sotto categorie (e in alcuni casi delle vere e proprie sotto-sotto categorie) che sono davvero difficili da imparare. Per questo stiamo lavorando a una specie di grande schema a cascata che raccolga tutte le tipologie di interlocutori possibili.
Le tre categorie madre sono: i soli (sotto categorie: anziani, vedove, emarginati); i disperati (cornuti, traditi, ammalati, non ricambiati) e i segaioli, che invece non hanno sotto categorie (in realtà staremo puntando a una differenziazione a seconda della loro perversione preferita).
Bosni dice che dovremmo puntare tutto sulla prima categoria.
Dice che una persona sola crede a qualsiasi cosa purché qualcun altro sia disposto a condividerla con lei. La prima volta che ho sentito di questa teoria, mi ha spezzato il cuore.
Adesso quando lavoro non ce l'ho più. Un cuore intendo.
Bosni, il mio capo, una volta, quand'ero ancora agli inizi, mi ha chiamato in ufficio.
«Siediti» mi ha detto.
Bosni è un uomo strano. È piccolo, quasi gnomesco. Ha le orbite degli occhi leggermente sporgenti, labbra sottili e un naso delicato. Guance paffute e il brutto vizio di unire le punte delle dita mentre parla, che è una roba che lo fa sembrare un cattivo dei cartoni animati. Il suo tono di voce è lezioso, strascicato. È una persona da cui non compreresti nemmeno la carta igienica.
«Che problemi hai?» Mi guarda con quegli occhi porcini. Mi spaventava. Lo fa tutt'ora ma quella volta mi sembrò di trovarmi di fronte a un boia, pronto a farmi fuori alla prima esitazione.
«Che problemi-»
«Ho visto che non sei sicuro quando parli al telefono. Devi essere sicuro, è il tuo lavoro. La gente chiama noi perché non è sicura e se dall'altra parte trova uno come te finisce che poi non ci chiama più.»
Seduto sulla sua sedia girevole Bosni sembra un piccolo, cattivissimo, bambino. Nemmeno un'ombra di barba, nonostante la pelle sia solcata da rughe e dia a pensare di un uomo sulla sessantina.
«Sono sicuro.»
«Sì?» Mi guarda da sopra le lenti degli occhiali.
«Forse...»
«Forse?»
Tamburella le punte delle dita.
«È che questa gente si fida di me. Crede che io sia la persona giusta per risolvere i loro problemi.»
Mi sono accorto di sudare solo quando ho sentito una goccia di sudore scivolarmi per il corpo e farmi il solletico.
«È esattamente così. Tu sei la persona giusta. Tu risolvi i loro problemi e ci metti più tempo possibile.»
«Sì ma...»
Bosni si alza in piedi.
«Ascoltami. Più tempo li tieni al telefono, più te li fai amici, e più soldi guadagniamo. È chiaro?»
«Sì.»
«Adesso torna di là.»
«Sì.»
Mi sono alzato dalla sedia e ho sperato intensamente che Bosni non aggiungesse più nulla.
«Quando lavori qui, il cuore lascialo fuori. Cuore e soldi sono due cose che non vanno mai d'accordo.»
Questa è la sua filosofia. Sono sicuro che ce l'ha tatuata questa frase, da qualche parte su quel piccolo corpicino che si ritrova.
Probabilmente in quella voragine nera dove una volta stava il cuore.

3

Il pomeriggio qua alla E.T.A. sembra non passare mai. I turni di pomeriggio sono sempre i peggiori perché le persone che chiamano sono sempre poche e quelle poche, se non esprimono particolari preferenze sul interlocutore con cui desiderano intrattenere il loro tempo, vengono ripartiti a caso tra tutti gli sventurati che fanno il turno di pomeriggio. Questo significa che le già bassissime possibilità di beccare qualche disperato che ti faccia passare il tempo diventano praticamente infinitesimali. Inoltre Bosni ha vietato l'utilizzo di qualsiasi apparecchio elettronico, cellulari compresi, perché secondo lui ci distrarrebbe dal lavoro. Quindi l'unica cosa che possiamo fare è parlare tra di noi (rimanendo sempre attenti che la spia rossa di segnalazione per una chiamata in entrata non lampeggi) o guardarci l'un l'altro con aria annoiata.
Ed è proprio questo che si finisce per fare, perché nessuno ha voglia di sentire le chiacchiere degli altri operatori.
A dire la verità è così per tutti: nessuno ha voglia di stare a sentire le altre persone. A nessuno interessa quello che vivono gli altri, le loro esperienze, le loro paure, i loro successi. Forse per i fallimenti il discorso è diverso, lì entra in gioco tutto un meccanismo mentale a proposito del sentirsi più fortunati o migliori. L'ho letto una volta su una rivista.
Comunque, di base, nessuno è intenzionato a sprecare il proprio tempo ascoltando i racconti di vita di qualcun altro (che non sia qualcuno di famoso ovviamente) e allo stesso tempo tutti sono tormentati dalla voglia sempre presente di bersagliare prossimo con le proprie esperienze, le proprie paure e, sopratutto i successi. È un processo strano ma condivisibile: ogni individuo tende a ritenere le proprie storie assolutamente più interessanti di quelle del resto del mondo.
Qua, alla E.T.A. La gente paga per comprare il mio tempo, la mia voglia di ascoltarli. Solitamente, se una di queste persone che chiamano (signora Gualnieri compresa) mi fermasse per strada per raccontarmi a proposito del gatto, o dei topi, o della figlia che vuole sposarsi con un balordo, io alzerei le spalle e me ne andrei, dimenticandomene cinque minuti dopo. Qui il mio interesse ha un prezzo, il mio tempo ha un prezzo. La mia vita, divisa in microporzioni da quarantacinque minuti d'attenzione l'una, ha un prezzo.
Alla E.T.A. non solo starò a sentire i problemi di chi chiama, ma potrò offrire loro una serie di soluzioni studiate su misura. Sarebbe più giusto dire «inventate al momento» ma loro non sanno che non ho assolutamente idea di come si facciano i tarocchi o di come ci si comporta in caso di una invasione di ratti. Per loro, quello che dico io, è più di un consiglio: è un consiglio che hanno pagato.
Emile è lì che parla al telefono con qualcuno. È rossa in viso, il naso più paonazzo del resto, la bocca che si muove a una velocità incredibile e ogni tanto spruzza saliva da tutte le parti. Ha i capelli sporchi, Emile. Non solo oggi, i suoi capelli sono sempre sporchi. Sono al limite tra lo status di sporchi ma ancora presentabili e sporchi assolutamente impresentabili. Sotto i neon appesi sul soffitto del call center la sua testa riluce e sembra perfettamente scivolosa. Un ammasso di vermi grassi e viscidi. Rossi. Vermi rossi.
Si accorge che la sto guardando e mi sorride. Io annuisco ma non ricambio il sorriso.
Io odio Emile.
Odio tutto quello che rappresenta: odio il suo posto di lavoro, odio il suo modo di essere, odio quel sorriso sbilenco che mi lancia. Odio i suoi capelli unti. Odio quel polso minuscolo, quasi scheletrico, che regge la cornetta. Probabilmente, se riuscissi a sentirla, odierei anche quello che sta dicendo al telefono. Lei è una dei pochi, qui dentro, che a volte parla più della persona che ha telefonato. Ogni tanto mi chiedo se sia Emile a pagare quello dall'altro capo dell'apparecchio. Eppure un sacco di persone chiedono di lei quando il centralino risponde. Chiedono di parlare con Emiliana, Rosy, Michela e tutti quegli alter-ego assurdi che s'è inventata. Che poi è una regola interna dell'azienda averne uno. Il mio è Timpano. In realtà non l'ho scelto io, me l'ha affibbiato Bosni dopo aver assistito alla prova che feci per entrare a lavorare qui. Disse che ero uno dei migliori «ascoltatori» che avesse mai visto all'opera. Che ero naturale, e che ero uno che sapeva ascoltare. Mi disse che Timpano sarebbe stato l'alias perfetto per me. Rivelare il nostro nome di battesimo significherebbe poter risalire alla società. Significherebbe grane. Significherebbe: «Sei licenziato».
Emile continua a parlare con foga. Ogni tanto batte il pugno sulla scrivania e sussurra tra i denti: «lo capisci?» Sembra quasi che conosca la persona con cui sta parlando. Sembra che si sia presa a cuore qualsiasi cosa quella gli ha appena raccontato. In realtà, una volta messa giù la cornetta (o passati i quarantacinque: Emile è una delle migliori «Intrattenitrici» che abbiamo alla E.T.A.) tutto il fervore sparisce come se non fosse mai esistito. E anzi, si trasforma in un'ondata di pettegoli ai danni di persone che né lei, né il tizio a cui li racconta conoscono.
Ferro è immobile al suo posto. Sembra quasi che ci si sia incastrato dentro. Una statua di sale con lo sguardo perso in mille direzioni diverse. Non guarda gli altri come faccio io, lui aspetta passando il tempo in un mondo tutto suo.
Saremo una ventina di persone all'interno di quest'ufficio, eppure si sentono parlare solo altri due oltre a Emile. Uno è un ragazzo cadaverico, con la frangia davanti agli occhi che non fa che chiocciare «sì» all'indirizzo del ricevitore. La persona che gli sta parlando urla talmente tanto che, se si tende bene l'orecchio, è possibile ascoltare frammento della conversazione. Adesso sta dicendo «...ambiato un cazzo!».
L'altra è Karol, una specie di computer nonché animale sacro all'interno del centralino. Karol era qui da prima che io iniziassi a lavorare alla E.T.A. Ed era qui anche prima che iniziassero a lavorarci Emile e Ferro. Karol è una ragazza con la pelle scura, degli occhiali con la montatura di corno, ingombranti in modo quasi ridicolo, lo smalto rosso sempre perfettamente pittato sulle unghie e un difetto di pronuncia che riguarda la lettera «S». La pronuncia «ette». Questo significa che quando deve darti delle stronzo ti dice qualcosa come «Tei veramente tronzo», e chiama tutte le persone che hanno il privilegio di parlare con lei: «tignora» o «tignore». Nonostante questo difetto del cazzo, è la più quotata tra le Persone Altamente Qualificate che lavorano qui (è così che ci chiamano nella pubblicità: «Chiamate la E.T.A., una Persona Altamente Qualificata saprà consigliarvi al meglio!»; viene spesso abbreviato come P.A.Q.). Questo, se lo chiedete a me, è dovuto da due fattori: il primo, quello che sanno tutti quanti, ovvero che Karol è dannatamente brava in quello che fa. Significa che sa ascoltare quando deve ascoltare e parlare quando deve parlare e, quando parla, lo fa con la stessa enfasi finto-vera che ci mette anche Emile. Solo che quella di Karol sembra davvero interessata. Secondo, e questa è una mia supposizione su cui sarei sicuro talmente tanto da poterci mettere la mano sul fuoco, quel suo difetto di pronuncia le dà la marcia in più. Nel senso che scatena un sentimento di pietà da parte delle persone che la chiamano che, d'un tratto, si sentono superiori a una P.A.Q. Anche solo dal punto di vista prettamente fonico. La poveraccia con cui stanno parlando non potrebbe nemmeno ammettere di essere «simpatica» senza risultare una sorta di ritardata mentale. Forse è un pensiero cattivo, ma è un pensiero cattivo che non riesco a scacciarmi dalla testa.
Emile attacca il telefono e immediatamente il fervore che pareva animarla fino al frammento di secondo immediatamente precedente a quello in cui ha messo giù la chiamata, scompare.
Mi guarda ancora, mi sorride. Io mi volto dall'altra parte e faccio finta che qualcuno mi stia chiamando. Giuro che se viene da me per raccontarmi quello che ha dovuto ascoltare fino adesso, prendo il taglia carte e mi apro la gola. Lo giuro su Dio.
Fortunatamente lei sembra capire la mia riluttanza e, nel momento in cui riporto lo sguardo nella sua direzione, sta parlando con la ragazza della postazione accanto: una biondina con gli occhi da pesce lesso e un terribile, disgustoso herpes al labbro superiore. Herpes che, per inciso, si trova nella stessa posizione da più di un mese e se fossi la biondina con lo sguardo da pesce lesso andrei a far controllare.
Prendo una matita dal portapenne e comincio a disegnare sul tavolo, come se fossi tornato a scuola. Come se avessi viaggiato dieci anni indietro nel tempo. Disegno un cane che mangia la testa di Emile. Abbondo col sangue.
Quando mi accorgo che lei si è alzata dalla postazione e sta venendo verso di me è troppo tardi. No, non per cancellarlo, che lo veda pure, non mi frega un cazzo. È troppo tardi per impedirglielo.
D'un tratto la spia rossa sulla mia console si accende. Una telefonata! Lei si ferma, delusa, io alzo le spalle impotente, e rispondo alla chiamata.

4


«Buongiorno, sono la Persona Altamente Qualificata Timpano. Come posso aiutarla?» Sono raggiante. Non ho idea di chi sia colui o colei con cui sto per parlare ma gli sono immensamente grato.
«Sono disperato.»
Nel senso che disperato è il nome o che è disperato e basta?
«Mi dica.»
«Mi chiamo... Andrea, ho 39 anni.»
La pausa di due secondi mi suggerisce che Andrea non è il suo vero nome. L'età potrebbe essere quella ma non ha granché importanza. Chissà perché le persone danno così tanta importanza al nome? L'ottantacinque per cento di persone che chiamano l'E.T.A. forniscono dei dati anagrafici falsi. Qualche volta inventano addirittura il cognome, come se noi, qua, non facessimo altro che segnarci nome, cognome ed età delle persone che ci chiamano. Sinceramente a noi non ce ne frega niente. Per noi loro sono sfide a tempo: una sfida in cui bisogna puntare al tempo massimo della chiamata.
«... e sono disperato.»
Mentre parla tira su col naso. Questo potrebbe significare tre cose: uno, è raffreddato; due, è un tossico; tre, sta piangendo. Non bisogna mai dare per scontata la terza opzione. Il numero di cocainomani che ci chiamano è altissimo.
Io ascolto. Non è mai saggio interrompere le persone che chiamano, specie prima che inizino a parlare della loro storia.
«Mia moglie mi ha lasciato. Dopo venticinque anni di matrimonio, mi ha mollato per un altro.»
Ed ecco la prima bugia che viene a galla. Venticinque anni di matrimonio sembrano veramente un po' troppi per un signore sulla quarantina. Questo significa che Andrea ha almeno una decina di anni in più.
«Li ho trovati insieme. Insieme nel letto, che sco... oh, Gesù... oh, Cristo... e non si erano nemmeno accorti di me.»
Una cosa che ho imparato in questo lavoro, è che le persone che chiamano non tergiversano mai: vanno sempre al punto. È un po' come se parlassero a loro stessi, come se si raccontassero da soli la propria storia. Per questo tendono a lesinare sui particolari o sugli abbellimenti. Probabilmente anche perché sanno quant'è che gli costano, in termini temporali e quindi monetari, quegli abbellimenti.
«Allora io ho urlato. Ma non ho urlato come di rabbia, ho urlato come... come di terrore, come se avessi visto qualcosa di orribile e, Dio mio, loro sono saltati sul posto e per poco non gli faccio prendere un infarto a tutti e due... voglio dire, magari. Magari avesse preso a quella... quella puttana maledetta. Stava sotto lei, stava sotto e mugugnava cose orribili... cose...»
Emile continua a guardarmi con l'aria da cucciolotta sgridata. Il che la fa risultare ancora più schifosa. Io comprimo la bocca in una linea sottile e annuisco. Mi bagno il pollice con la saliva e comincio a strofinare lo scarabocchio sul tavolo per cancellarlo via. La testa dell'Emile che ho disegnato viene via in uno sbafo blu particolarmente cruento.
Il tizio al di là del telefono non parla più e adesso continua a tirare su col naso. Ancora cinque secondi e poi intervengo io. Non vorrei che attaccasse.
Uno. Due. Tre.
La testa di Emile è completamente andata. Ora è solamente un corpo che sgambetta mentre un cane azzanna lo spazio bianco sopra al suo collo.
Quattro.
«Lo sa cos'è successo poi?»
«Mi dica.»
«Lei e lui si sono rivestiti in fretta e furia, mentre io me ne stavo fermo sull'uscio e li guardavo colmo di orrore e di vergogna. Io mi vergognavo. Loro no.»
Il disegno è quasi venuto via del tutto. Mi rendo conto che se Bosni vedesse com'è che tratto i mobili del suo ufficio mi caccerebbe via a calci.
«Quando... quando hanno finito di risistemarsi, lei mi ha detto che sarebbe andata via con lui. Così. Questo è stato il nostro addio.»
mi bagno ancora il pollice mentre bofonchio un: «Uhuh».
Adesso il disegno non c'è più. Al suo posto minuscoli residui nerastri, come quelli che lascia la gomma da cancellare. Solo che, probabilmente provengono dal mio pollice e a questo non so dare nessuna spiegazione.
«E io l'ho... cazzo, me ne vergogno come un ladro, ma l'ho scongiurata di rimanere. Le ho promesso che sarei cambiato e che... credo di averle detto pure che non sarebbe successo mai più. Si rende conto? Io che dico a lei che non sarebbe successo mai più. Come se fosse colpa mia!»
«Non era colpa sua» dico io. Ogni tanto bisogna dire qualche ovvietà : dopotutto è per questo che chiamano.
«Lo so... lo so che non era colpa mia. Eppure in quel momento non esistevano colpe o sbagli. Esistevamo io e lei. E lei stava per andarsene via e io non volevo permetterlo quindi ero pronto a prendermi la colpa di tutto, l'importante era che lei rimanesse.»
«E lui?»
«Lui chi?»
«L'uomo che era con sua moglie. Lui che faceva nel frattempo?»
«Quel bastardo... aspettava. Aspettava sull'uscio di casa mia, che mia moglie se ne uscisse con lui. Mi stava portando via tutto in quel momento.»
C'è ancora qualche secondo di silenzio.
«Io... credo di volermi ammazzare.»
Maledizione, no. Aspetta ancora altri trentacinque minuti, stronzo maledetto.
«Mi ascolti, è logico che lei stia reagendo male all'accaduto. Quello che le è successo è terribile, e queste cose sembrano possibili solo nei film finché non ci accadono di persona, e solo allora ci rendiamo conto di quanto siano terribili. Quello di cui lei deve tener conto, è che non è stata colpa sua che lei-» Ma sì, dillo, che cazzo ti frega. «Lei, se mi permette, è una persona stupenda. Io le capisco dalla voce queste cose , sa? Sono Altamente Qualificato per questo lavoro alla E.T.A. Qui siamo i migliori per questo tipo di cose. Lei non deve scoraggiarsi o darla vinta a quella donna. Lei è migliore di così
C'è silenzio. Il C.S.R.D.V. (copione standard per risposte da delusioni varie) è infallibile. Bisogna solo impararlo a memoria e recitarlo quando se ne presenta il caso. Alle persone basta sapere che qualcuno le crede «migliori» o «straordinarie» per scatenare in loro una specie di sentimento di orgoglio. Lo step successivo è il farsi pregare, ma buona parte della voglia che aveva sto tizio di ammazzarsi è stata appena stata spazzata via dal buon vecchio C.S.R.D.V.
«Io credo... credo che mi ammazzerò lo stesso. Non ha senso vivere senza di lei.»
«Sì che ha senso. Mi stia a sentire, il mondo la fuori è pieno di donne.» Nessun riferimento alla sua età. Se ha mentito è probabile che si senta vecchio o comunque non a suo agio con gli anni che ha sulle spalle. «Lei è una persona piena di coraggio. Chiamare noi è stato solo il primo gradino. È stato, mi consenta il termine, tirare fuori le palle e urlarci contro tutto il suo coraggio.»
«E se fosse stato soltanto perché non volevo morire da solo?»
Molto probabile, caro vecchio Andrea. Ma non è questo che vuoi sentirti dire. Io vengo pagato per dirti quello che vuoi sentirti dire e non ti farei mai una scorrettezza così.
«Lo escludo. Si fidi. Lei è molto meglio di quello che crede.»
Avanti dillo. Dammi carta bianca. Rendimi protagonista dei tuoi prossimi trenta minuti.
«Lei nemmeno mi conosce. Come fa a dire che sono straordinario. Andrea non è nemmeno il mio nome. Ho mentito. Ho mentito su tutto... tranne che sulla storia, quella è vera. Sono un bugiardo...»
Sei un bugiardo che passerà i prossimi minuti al telefono. Ti ringrazio.
«Ha ragione. Mi parli di lei.»
Scacco matto.

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